Francesca arriva in terapia con un problema di attacchi di panico che la condiziona da alcuni mesi. Ha finito da poco l’Università, sta cercando un impiego ma non riesce a presentarsi ai colloqui di lavoro perché l’ansia è troppo forte e la costringe a rimanere a casa. La vita sociale si è notevolmente ridotta, quando frequenta luoghi affollati teme possa ripresentarsi il panico e così evita le situazioni potenzialmente rischiose. Col passare del tempo è diventato difficile anche uscire con pochi amici, Francesca pensa che allontanarsi da casa, l’unico posto dove si sente realmente al sicuro, possa rappresentare una fonte imprevedibile di pericoli; questa incertezza su cosa le possa accadere la induce a organizzare le sue giornate per renderle più prevedibili possibile, ma gradualmente si rende conto che sta rinunciando a troppe cose che in passato faceva senza alcuna difficoltà.
La psicoterapia inizia parlando del primo episodio di panico; Francesca è stata male dopo una serata con gli amici, qualche bicchiere di troppo, una sigaretta non proprio “sigaretta” e lo stomaco che comincia a dare segnali di malessere, finché la testa diventa pesante, confusa, e la sensazione di perdere il controllo si trasforma in panico. Da quel momento nasce il pensiero che quell’episodio possa essere il primo di una lunga serie; ogni volta che Francesca si sente esposta a qualcosa che non può controllare totalmente – lo sguardo degli altri, il caldo afoso dell’estate, il senso di pienezza dopo una cena abbondante – torna il ricordo del panico, il timore che il corpo e con esso la mente possano smarrirsi.
Nel corso delle sedute ricostruiamo i processi psicologici del panico: esiste davvero un legame diretto e oggettivo tra i singoli episodi? Si può davvero affermare che un evento si ripeta solo perché lo pensiamo? E ancora: cosa significa per Francesca perdere il controllo?
Quanto è grave per lei sentirsi e mostrarsi vulnerabile? Ci sono altre situazioni in cui l’incertezza le sembra particolarmente difficile da sopportare? La terapia porta alla luce la valutazione che Francesca dà del suo problema – “avere il panico è un segno di debolezza, non lo posso accettare” – e allo stesso tempo le attribuzioni riferite agli altri – “se qualcuno mi vede mentre sto male, penserà che sono matta o che mi sono fumata qualcosa” – in un quadro che si caratterizza non solo per la natura irrazionale dei pensieri ma anche per i giudizi svalutanti che Francesca utilizza nel descriversi.
Il lavoro clinico mette in discussione alcune convinzioni radicate: è davvero così probabile un attacco di panico? Le altre persone sono davvero pronte a giudicarci male o possono diventare un aiuto per affrontare meglio la situazione? E ancora, è veramente impossibile gestire le esperienze in cui non siamo in grado di prevedere ogni cosa? Francesca inizia delle piccole esposizioni per mettere in pratica ciò che ci siamo detti durante la terapia; prende la metropolitana per qualche fermata accompagnata dal fidanzato, si presenta ad alcuni colloqui di lavoro che non le interessano e che utilizza per desensibilizzarsi alla paura del contatto visivo con una persona che potrebbe giudicarla. I passi successivi mirano alla conquista di una maggiore autonomia negli spostamenti e alla progressiva acquisizione di uno stato emotivo meno ansioso di fronte a compiti e situazioni via via più complessi.
La terapia genera ottimi risultati e ricostruisce le cause che hanno originato il panico, individuandole nella fragilità che Francesca ha percepito, conclusa l’Università, davanti alla necessità di riorganizzare la propria vita; il panico, come spesso accade, è stato l’espressione di quella fragilità e si è rafforzato per una caratteristica della personalità di Francesca, la paura di perdere il controllo di fronte a eventi imprevedibili.